Pur non essendo nato nella città dei Sassi (sono arrivato a Matera nel lontano 1964), l’imponenza della celebrazione del 2 luglio, assai diversa nel suo lungo svolgimento dalla festa patronale cui ero abituato ad assistere, mi ha subito toccato. Lo dimostrano le numerose volte che con gli attrezzi del mestiere sono tornato a guardarla, a fissare le scene dello strazzo: il cavaliere disarcionato; la piega di un mantello; la fuga in motoretta di una giovane coppia dopo la conquista di un angelo. Il passaggio del carro, il suo rumore pesante, i muli che lo tirano, la statua della Santa posta sopra la parte più alta del manufatto a cogliere gli sguardi, le intime suppliche di quanti fanno ala al suo passaggio hanno sempre provocato in me commozione e vicinanza la più sincera.
Quando parliamo della Bruna non dobbiamo immaginarla sempre uguale nel tempo. Limitarsi ad accettare o respingere quegli elementi che segnano la novità non aiuta a comprendere gli avvicendamenti sociali avvenuti nella comunità. Da quando sono a Matera ho assistito almeno a tre Brune: la Bruna contadina, la Bruna del terziario, e l’attuale.
La Bruna conosciuta al mio arrivo conservava ancora una certa compostezza, il senso della misura: eredità, queste, di un mondo che non conosceva eccessi, che traeva dalla dura lezione della campagna gesti, segni, comportamenti e ne facevano, per il modo con cui si stava insieme, un fatto corale, giottesco. Non a caso Luigi Guerricchio si lascia guidare, quando ferma sulla tela alcuni momenti della festa, dal padre della pittura italiana.
E’ stato così sino agli inizi degli anni ottanta del Novecento, sino a quando, cioè, un nuovo mondo non si impossessa dell’evento. A partire da allora molte cose cambiano nella nostra Matera.
Sono, questi, gli anni del trionfo del pubblico impiego, dell’affermazione di nuove categorie sociali. Si cominciano a vedere sui cavalli non più contadini, figli di contadini, ma impiegati, bottegai, ospedalieri, qualche tecnico, qualche figura del mattone. Il Vescovo non guida più la processione fermo sulla groppa del proprio ronzino – contadino tra i contadini –, ma siede in carrozza.
In altra carrozza e non più a piedi davanti al carro, prendono posto il presidente della Festa e i suoi più stretti collaboratori. Devozione, servizio, umiltà sono roba del passato, zavorra che ostacola ambizioni, voglia di protagonismo. Visibilità, ostentazione sono i nuovi valori.
Si modella la Festa senza tenere conto del significato che essa ha assunto nel corso degli anni.
Il giudizio, pertanto, non deve limitarsi a ciò che ci piace, o, non ci piace, ma dovrà riguardare soprattutto chi quella roba ha messo in campo. Le cose non atterrano per opera dell’ignoto.
L’eccentrico (da più anni si prova gusto a caricare i momenti della Festa di segni che nulla c’entrano con la sua tradizione e nemmeno, ad onor del vero, con il buonsenso), altro non è che il frutto della nostra cultura, l’immagine più significativa di ciò che siamo diventati. Spazzato via molto di quello che rinviava alla religiosità dell’evento, tutto ciò che serve a mascherare il vuoto, perché di questo si tratta, dell’inarrestabile impoverimento del 2 luglio, trova facile accoglienza.
Il suo apparire sulla scena del 2 luglio ci rivela, qualora nutrissimo ancora qualche dubbio, i limiti di una città che, essendo stata adulata troppo, sembra aver smarrito il senso delle cose reali.
Aperte le chiuse, la piena ci porta alla Bruna di oggi, alle stranezze che hanno irritato quanti vorrebbero che si fosse più rispettosi della tradizione.
Esaurito il giuoco degli avvicendamenti sociali – non ci sono più le classi – , la Bruna di adesso è figlia e non più madre come lo è sempre stata nel passato, del più acceso individualismo e degli indifferenti, categoria umana, quest’ultima, assai odiata da Gramsci e oggi invisa anche allo stesso Papa.
Il consumismo (a torto è stato associato al consumo di beni necessari) divora tutto: storia, tradizioni, paesaggi, suolo, memoria; inevitabile, quindi, quanto si è visto e comprendo lo sconcerto di chi ha espresso indignazione e amarezza.
Bisognerebbe fermarsi un attimo e riflettere. Trovare il coraggio di rivedere la Festa (troppe le stramberie che alterano la sua riconoscibilità), restituirebbe alla città ciò che l’ha sempre distinta: la capacità di sapersi leggere. Operazione che se compiuta sapientemente potrà essere foriera di ben altre e più importanti svolte, indispensabili per tirare Matera fuori dallo stallo cui versa da lungo tempo. Non sono meno inquietanti le cose che nascono fuori dalla Festa. Penso al pisciatoio di Boeri (immaginato, probabilmente, per quelli che salgono al Comune), al rione Quadrifoglio, alla pena di chi ci vive.
La Chiesa, che della festa dedicata alla Madonna della Bruna è la tutrice e che più di altri, più della politica (chiedere alla politica un pensiero al riguardo è pretendere troppo, è come voler chiedere al morto di parlare), dovrebbe sentire il bisogno di porre un freno alle bizzarrie, lascia tutto scorrere.
Il rischio è quello di vedere la manifestazione, la più cara al popolo materano, perdere autenticità e con essa cancellato anche l’ultimo elemento identitario della città rimasto ancora in vita.
Nicola Filazzola é pittore