Terminata questa calda estate possiamo ragionare con il dovuto distacco della Festa della Bruna. Sono tre i temi che nella scorsa edizione sono emersi con prepotenza: la polemica sulla modernizzazione della festa, l’incidente sfiorato durante lo strazzo del carro e le azioni repressive ipotizzate per scongiurarlo in futuro, la volontà istituzionale di proporre la Festa come Patrimonio immateriale dell’Unesco.
Vi è un fil rouge che li lega, e che qui seguiremo, partendo dal primo punto.
- Molti hanno criticato la presenza di elementi dissonanti con il carattere sacro e tradizionale che una festa religiosa dovrebbe avere: i trampolieri, le luminarie intermittenti, la musica disco in piazza, i cori anti-potentini dei giovani, e molto altro. A questo proposito ritengo giusto evidenziare come ciò che avviene il 2 luglio non sia affatto solo una festa religiosa. Si tratta, al contrario, di solenni festeggiamenti popolari in occasione di una festa religiosa. La differenza è abissale. I festeggiamenti per una laurea non hanno nulla di accademico, al contrario dell’evento in occasione dei quali si tengono. O ancora un matrimonio celebrato in chiesa, e dunque un sacramento religioso, è spesso preceduto da addii al celibato/nubilato goliardici quando non sconci, e seguìto da lauti pranzi innaffiati da alcolici e interrotti da scatenati balli latino-americani. Certo, a nessuno verrebbe in mente di dissacrare il momento dell’ingresso in chiesa della sposa con il sottofondo de “L’uccellin della comare”, ma quando il medesimo brano è usato come intermezzo fra due portate del pranzo nuziale a nessuno viene in mente di interrompere il ricevimento perché il brano non ha carattere religioso. La nostra festa patronale è tale proprio perché agli intoccabili, sacri e cerimoniosi momenti integralmente religiosi, quali le sante messe, il raccoglimento in preghiera, la sentita devozione personale e collettiva, si accompagnano solenni festeggiamenti popolari. Questi ultimi non sono, proprio per loro natura, manifestazioni di carattere religioso, ma esternazioni festose e gioiose della collettività. E queste si manifestano secondo lo spirito del tempo. Le giostre del luna park, lo zucchero filato, le luminarie danzanti, la banda, i botti, i cavalieri in costume, il suono del trombettiere, il mercato, i fuochi di artificio, il panino dagli ambulanti, finanche la pasta al forno del pranzo, sono il gioioso contorno popolare di una festa religiosa, ma non hanno nulla di sacro. Che a questi aspetti si siano aggiunti recentemente degli scenografici trampolieri, l’abitudine dei ragazzi di assembrarsi al boschetto la notte della vigilia, le rumorose “iose” durante le processioni, i cori da stadio nella piazza affollata, la musica da discoteca a notte fonda, non vuol dire che ci si discosti dalla tradizione, nè significa dissacrare la religione. Al contrario, è l’unico modo per continuare a mantenere in vita l’anima di una festa popolare, consentendo ai contemporanei di fare festa secondo i riti della collettività contemporanea, che è fatta di momenti di condivisione negli stadi e nelle discoteche (da qui i cori e le musiche), e che è abituata a televisivi spettacoli scenografici (le luminarie a ritmo di musica, i trampolieri).
Se si vuole tenere in vita l’anima profonda di una festa patronale, non bisogna irrigidirne gli aspetti formali, censurando qualunque aspetto paia discostarsene, ma bisogna lasciare che i contemporanei se ne possano appropriare, festeggiando nei modi e termini in cui oggi si festeggia.
Una festa è viva quando è tale per i vivi.
E i vivi festeggiano in modo diverso dagli antenati di uno o due secoli fa. Cristallizzare la festa respingendo ogni nuovo apporto significa trasformarla in una una recita asettica, in una meccanica rievocazione.
Non vi sono dubbi: a volte queste manifestazioni possono sembrare kitsch, forse anche trash, ma è ciò che spesso accade al popolare, che per sua natura spesso non usa cesellare di fino. Queste esternazioni, d’altronde, non sostituiscono, ma si aggiungono agli aspetti della festa più tradizionali. E questi ultimi si badi -come ho avuto modo di anticipare in una fortunata rubrica su Trm presente anche su youtube- altro non sono che i residui delle modalità antiche di festeggiamento per la visita di un personaggio illustre. Si tratta di rituali e cerimoniali che un tempo erano sinonimo di festa popolare e che ormai sono ripetuti solo nella forma, risultando incomprensibili ai contemporanei. Dunque nel corso dei secoli, come è ovvio per ogni manifestazione tradizionale, non si è affatto continuato a festeggiare la Bruna in modo sempre identico, ma col tempo ogni generazione ha arricchito la festa di nuovi elementi, abbandonandone altri, sulla base dei gusti, delle usanze e delle volontà di ogni tempo. Se immobilizzassimo la festa, saremmo la prima generazione che invece di festeggiare la Bruna, si limita a commemorare come si festeggiava.
- Sono ormai molti i segnali, colti da diversi intellettuali, di come si stiano perdendo i numerosi spazi di confronto collettivo che un tempo costituivano l’orizzonte sociale: la vita di partito, le adunanze dei sindacati, la messa domenicale, gli amici seduti sui muretti, gli oratori, i cinema affollati, gli stadi pieni, la coscienza di classe. La lenta scomparsa dei cosiddetti corpi intermedi rende ancora più necessario preservare qualunque spazio ove l’individuo ha modo di sentirsi parte di una collettività, e questa ha modo di esprimersi al di fuori di formalismi e costrizioni. Matera ha la fortuna di avere questo spazio il 2 luglio. Non è cosa frequente: se è vero che ci sono feste in tutte le città, molto spesso a queste è stato sottratto qualunque spontaneismo. Ai cittadini comuni non è lasciato che il ruolo di spettatori passivi, o al massimo di figuranti mascherati a uso e consumo del marketing turistico. Persino il carnevale, un tempo dominio incontrastato di ribaltamento sociale, di assenza di regole, di spontanea organizzazione di gruppi mascherati, si è ridotto a un percorso transennato ove sfilano, con programma che rispetta il minuto, carri realizzati da professionisti. Nella nostra festa, oltre ai momenti spontanei che abbiamo descritto nel precedente punto, contestati da taluni perché sono troppo moderni o perché non abbastanza religiosi, tutte le fasi sono andate formalizzandosi: i botti dei pastori sono silenziati, i cavalieri sono schedati, il percorso è transennato, la processione serale è militarizzata, l’accesso in piazza è contingentato in maniera severissima, i fuochi di artificio devono chiedere la Vinca alla Regione, il tema del carro è deciso dalla Curia. Un solo baluardo è sopravvissuto all’abbraccio soffocante della regolamentazione: il momento dello strazzo, che rappresenta ancora la sublimazione dell’imprevedibilità e della spontaneità. È ancora un momento non formalizzato: gli assalitori non sono figuranti, lo strazzo non è una recita, risulta imprevedibile sapere dove avverrà e quali persone prenderanno quella tale statua. Non è uno spettacolo fatto a uso e consumo di spettatori, non è organizzato da una direzione artistica, ma è un fragile brandello di autenticità e spontaneità che ogni anno si riduce, resistendo a fatica ai tentativi di militarizzarlo e formalizzarlo, per renderlo controllabile. Il pretesto, ovviamente, è quello della sicurezza: ciò che è imprevedibile non è mai sicuro. Forte è la tentazione delle istituzioni di governare questo sfogo popolare, ma rappresenta l’ultimo superstite dello spontaneismo delle feste popolari, e ne va preservato il suo carattere imprevedibile e autentico, perché è la vita a contenere l’ imprevedibilità, e l’unico modo per rinunciare alla seconda è di soffocare la prima.
- Non conosco bene le ragioni per cui le locali istituzioni, ossia il Comitato e il Comune, abbiano deciso di proporre la Festa quale patrimonio immateriale dell’Unesco. Immagino che sia un modo per dare alla festa maggior prestigio, e di poter vantare una certificazione internazionale circa il valore e l’unicità della nostra manifestazione. Non sono pregiudizialmente contrario a questa iniziativa, ma è necessario portarla avanti con la necessaria cautela. Vi sono due aspetti in particolare, su cui ritengo sia opportuno un dibattito pubblico. Il primo è il rischio che l’Unesco imponga una rigida regolamentazione alla Festa, in quanto riconoscerebbe quale patrimonio alcune precise modalità di svolgimento e non altre. Le conseguenze sarebbero devastanti, perché la festa deve camminare sulle gambe dei contemporanei, non sulle regole degli enti. Il secondo rischio è di turisticizzare la festa. Nonostante i miei impieghi professionali nel turismo, ho sempre scoraggiato qualunque turista a recarsi a Matera il 2 luglio. La festa non è organizzata per i turisti, né deve esserlo. Considero provinciale ritenere che l’obiettivo di una festa debba essere quello di attrarre turisti, e che dunque la sua importanza si debba valutare sul numero di presenze turistiche che riesce a ottenere.
Se nelle prossime edizioni si dovessero censurare gli apporti moderni della festa, si limitassero le manifestazioni popolari con il pretesto della religiosità, si regolamentasse lo strazzo, si cristallizzassero tempi e modi della festa, adattandoli alla presenza turistica, avremmo guadagnato uno spettacolo ben organizzato, famoso e prevedibile.
Avremmo perso una festa. La festa. La nostra.
Francesco Foschino é fondatore della rivista trimestrale di storia e cultura del teritorio MATHERA