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La sostanza dell’effimero di Don Donato Giordano O.S.B.
La distruzione del carro della Bruna tra pietà popolare, superstizione e neopaganesimo

Da secoli, la festa più importante per la città di Matera è quella della Madonna della Bruna, il due luglio, Patrona dell’Arcidiocesi insieme a S. Eustachio. Un patronato che storicamente risale al 1270, quando fu loro dedicata la nuova chiesa cattedrale, nei pressi dell’antico monastero di S. Eustachio, in sostituzione dell’antica chiesa di S. Maria de Episcopio. In realtà, finora non si hanno documenti coevi che attestino esplicitamente gli inizi della festa e del successivo titolo liturgico della Visitazione, se non l’ipotesi che Bartolomeo Prignano, vescovo di Matera nel 1363, divenuto papa nel 1378 (con il nome di Urbano VI), nel Concistoro dell’8 aprile 1839 propose l’introduzione della festa della Visitazione per la Chiesa universale, datandola al 2 luglio, giorno della presunta festa materana[1].

Questa festa, che nel tempo ha subito diverse variazioni[2], ancora oggi è molto sentita dalla comunità materana, tant’è vero che il 2 luglio è stato definito mediaticamente “il giorno più lungo” per la città, caratterizzato da una serie di elementi rituali incentrati su alcuni eventi cultuali, in particolare l’allestimento di un sontuoso carro processionale, sul quale è trasportata la statua della Madonna, detta “della Bruna”, dalla periferia della città fino alla chiesa cattedrale.

E’ risaputo che la costruzione di un carro o di una macchina da trasporto per il simulacro religioso non è un’esclusività materana, ma rientra in una tradizione antropologica culturale più vasta, con elementi che accomunano luoghi lontani e diversi, con espressioni esteriori ed usanze analoghe. Basti pensare al carro di S. Rosalia a Palermo, al carro della Madonna della Milicia sempre in Sicilia, a quello di Seminara in Calabria, al cocchio di S. Efisio in Sardegna, alla macchina di S. Rosa a Viterbo, etc.

L’usanza di trasportare Madonne e Santi patronali su grandi macchine, costruite generalmente in legno e cartapesta, è la testimonianza della devozione della comunità per il santo patrono. La costruzione della macchina è molto complessa. Si vuol dire che complessa è l’organizzazione sociale che ruota attorno alla realizzazione di molteplici apparecchiature e al loro trasporto nella ritualità della festa che, grazie a questa tradizione, si colloca a metà tra il sacro e il profano, suggestiva e spettacolare. Anche le leggende a fondamento di queste tradizioni – spesso elaborate in seguito per accreditarle – si ripetono allo stesso modo: in genere, si rievocano leggendari arrivi o ritrovamenti di simulacri sacri, rivelazioni agiofaniche e così via.

Quanto alla tradizione materana, essa si colloca temporalmente tra il XVI-XVII secolo. La prima notizia documentaria di una statua della Madonna della Bruna risale al 1557; quella relativa alla prima commissione per l’allestimento del carro è del 1690, anche se nulla vieta di pensare che qualcosa fosse fatto anche prima.

Quanto alla struttura, il carro materano è dominato dal “cereo” o torretta, su cui poggia la statua della Madonna della Bruna; lo scafo contiene, di volta in volta, una scena evangelica, un’allegoria dei misteri della Chiesa o la rappresentazione di altri eventi che si vogliono commemorare. Da tempo, è invalso l’uso di rappresentare un messaggio annuale che l’Arcivescovo propone come guida nel cammino umano, sociale e spirituale dell’intera comunità. Quello che, sotto l’aspetto religioso e antropologico non è chiaro è, invece, il motivo per cui il carro, che richiede mesi per la sua progettazione e realizzazione oltre che un cospicuo impegno economico, dopo qualche ora di utilizzo, al termine della processione, viene distrutto in pochi minuti, con un assalto furioso da parte di bande giovanili. E’ un evento incomprensibile a molti, soprattutto non materani ed estranei a tale insolita consuetudine.

A dire il vero, agli inizi, il carro era molto semplice e alla fine della processione non veniva distrutto. Lo si conservava e al massimo si eseguivano alcune riparazioni. Ciò che veniva distrutto, invece, erano le statuette che adornavano il cosiddetto “castello”, farcito di botti e nastri pirotecnici, il cui incendio causava il danneggiamento irreversibile delle statue. Solo in seguito invalse l’uso della distruzione totale del carro – anche se non sempre praticata – con diverse giustificazioni, alcune presunte storiche, altre elaborate dalla fantasia popolare, nessuna definitiva.

E’ indubbio che si tratta di una manifestazione ascrivibile all’ambito della “pietà popolare”, oggetto, da anni, di una vasta letteratura, che ha visto eminenti studiosi giungere a conclusioni molto divergenti tra di loro. Lo stesso termine “popolare” è stato utilizzato in senso differente, sia per indicare la categoria di una cultura subalterna, al margine della cultura dominante propria delle élites, sia per indicare un residuo del tempo passato, un settore della vita non ancora toccato dai cambiamenti legati all’industrializzazione e all’urbanizzazione. In altri termini, una religiosità delle masse, religiosità dell’uomo della strada, privo di una formazione teologica, distinta dalla religiosità dell’élite dei credenti, se non una forma di religiosità tradizionale, che di solito si esprime nel costume e nel folclore religioso della gente semplice. Al contempo, questa religiosità fornisce un senso di appartenenza e solidarietà, specialmente tra le classi subalterne, e può fungere da forma di coesione sociale in contesti di oppressione e sfruttamento. Non poche volte si è inserita la teoria marxiana delle classi sociali e della lotta di classe, che ha trovato l’espressione più spinta nell’idea di “Chiesa popolare”, cioè una Chiesa che sorge dal basso e si presenta alternativa a quella gerarchica.

Di fatto, alcuni attribuiscono alla distruzione del carro un significato simbolico di lotta e reazione al despotismo della classe dominante. Sarebbe un modo di affermare il proprio ruolo nel contesto della festa, segno di riscossa proletaria nei confronti dei cosiddetti “galantuomini” e “signori”, non escluso il clero, sempre in primo piano, che ufficialmente la festa avevano organizzato e gestito.[3] Altri hanno evidenziato anche un aspetto apotropaico, comune a molte manifestazioni popolari del Meridione, donde la bramosia di appropriarsi di qualche frammento del carro, ritenuto sacro, da portare a casa, o in campagna, a protezione divina.

Quanto alla posizione della Chiesa, va ricordato che all’indomani del Vaticano II, non pochi sostenitori del purismo teologico e liturgico si erano espressi in modo alquanto negativo nei confronti della religiosità popolare, interpretando in modo eccessivamente unilaterale i documenti conciliari. Le varie manifestazioni, a loro parere, non erano conciliabili con le esigenze della riforma liturgica. La religiosità popolare veniva giudicata forma di religiosità incompleta, inquinata da influssi di magia e da residui di paganesimo. In seguito, tuttavia, è stata riconsiderata dal Magistero ecclesiale che, con autorevoli interventi pontifici, ha visto in essa una “cultura”, o meglio una inculturazione della fede, non inferiore a quella dominante ancorché diversa. Paolo VI, infatti, nella Evangelii nuntiandi, pur evidenziandone i limiti e i pericoli, affermava che, “se è ben orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori”. Il problema, di fatto, è proprio quello del giusto orientamento, con un ben delineato programma pastorale e non tollerarne le incongruenze.

Il successivo pontificato di Giovanni Paolo II sviluppava le intuizioni di Paolo VI. Contribuendo a liberare la religiosità popolare dall’etichetta di residuo, in estinzione, di un passato remoto, ne faceva emergere la forza e il dinamismo interiore, connotandola come straordinaria risorsa spirituale anche per la Chiesa di oggi. L’attuale Catechismo della Chiesa Cattolica, a dirla in altri termini, ritiene “necessario un discernimento pastorale per sostenere e favorire la religiosità popolare e, all’occorrenza, per purificare e rettificare il senso religioso del popolo che sta alla base di tali devozioni e per far progredire nella conoscenza del mistero di Cristo. Il loro esercizio è sottomesso alla cura e al giudizio dei vescovi e alle norme generali della Chiesa” (CCC 19). In altri termini confermava quanto già detto da Paolo VI, che devolveva questo compito alla carità pastorale dei vescovi, esortandoli a una particolare sensibilità nei confronti della pietà popolare, per cogliere le sue dimensioni interiori e i suoi valori innegabili, aiutandola a evitare i rischi di deviazione (cf. EN 48). Si trattava di mettere in atto una pedagogia adeguata, che, senza distruggere valori autentici, non rinunciasse all’obiettivo fondamentale di condurre ogni credente a una fede matura.

In realtà, a parte le ottime dichiarazioni e le buone intenzioni dei documenti magisteriali, la suddetta questione è tutt’altro che risolta, tanto più che è in stretta connessione con la più complessa questione della evangelizzazione della cultura, soprattutto in un’epoca in cui è divenuto crescente il divario tra Vangelo e cultura anche nei paesi di antica tradizione cristiana. E’ più che lecito porsi la domanda di come finora si è evangelizzata la religiosità popolare, qual è stato il metodo elaborato e adottato, e come si continua a farlo. Fino a che punto ci si è impegnati a ricercare forme innovative e adeguate di pastorale popolare? A volte, pare ancora di assistere alla compresenza, implicita o esplicita, di una pastorale destinata al popolo e altra destinata alle élites cristiane. Si ha l’impressione, insomma, che, fatta una semplice riverniciatura delle forme tradizionali, si persegua solo e sempre il consenso di una minoranza “praticante”, cristiani di sacrestia, presenti e pronti a tutte le convocazioni e appelli, lasciando fuori il più dei battezzati, cioè il più del “popolo cristiano”. E questo non senza la complicità di parte del clero che, nella confusione della propria identità, si compiace di accompagnare lo spettacolo con anacronistici elementi ornamentali (paramenti datati, pizzi e merletti). Si vuol dire che c’è ancora molto da fare perché il “popolo cristiano” prenda coscienza della sua identità di persone scelte da Dio per farne una stirpe eletta, un sacerdozio regale, gente santa (Pt 2,9), per offrire quel “culto spirituale” gradito a Dio (Rm 12, 1).

Ritornando alla festa materana della Madonna della Bruna grande è lo sforzo per prepararla bene, formalmente e spiritualmente, con un’organizzata novena in Cattedrale, un’Ottava post Solennità e altre manifestazioni di pietà. Purtroppo, la partecipazione rimane quella di una minoranza, attenta ma molto ristretta, quando la si paragoni alla folla cittadina che, riversatasi nella festa, poco avverte il significato sacro della stessa e dei suoi simboli, a partire dalla Vergine, dalle figure di Santi e a finire al gran numero di Angeli e Angioletti che adornano, in forme variopinte, il carro trionfale. E’ risaputo che la “cultura” della massa può trasformare e talvolta banalizzare simboli religiosi profondamente significativi, rendendoli parte di un consumo culturale che li distacca dal loro contesto originale e dalla loro profondità spirituale. E’ come avere a che fare con gli adoratori del nuovo vitello d’oro, al quale hanno contribuito alla costruzione e che ora sono pronti a impossessarsi di un pezzo.

Per la stragrande maggioranza della folla presente e per i mezzi di comunicazione la festa della Bruna è soprattutto la rottura finale del carro. Un atto profano, alterazione della cultura religiosa, che tratta il sacro riducendolo a oggetto di consumo. Il sacro furore religioso di ascendenza popolare, tanto diffuso nella tradizione meridionale e medievale, assume, nello specifico, il carattere di assalto vandalico, non privo di violenza e contesa tra gli assalitori, ognuno alla ricerca del miglior pezzo E’ vera e propria “rissa”, una volta disapprovata e pubblicamente condannata dallo storico Marcello Morelli, Vicario generale dal 1953 al 1972, che volentieri ne avrebbe fatto a meno. Lo stesso parere espresse anche chi, di parte laica, nel 2007, a seguito di un incidente abbastanza grave, propose di annullare la fase conclusiva della distruzione, con assalto, al carro. Propose, infatti, per la domenica successiva, giorno dell’Ottava, la messa all’asta delle figure in cartapesta, sì da finanziare, col ricavato, la festa dell’anno successivo. Fra l’altro, pur trattandosi di immagini, non è certo bello, dopo l’assalto, vedere andar via Madonna e Santi decapitati, senza braccia, senza gambe, “vilipesi”. La proposta della messa all’asta, naturalmente, non trovò consenso, eccetto qualche altra voce solitaria.[4]

Allo strazio violento di Madonna, Angeli e Santi, infatti, inutilmente cercano di opporsi e porre freno, agitando forsennatamente lunghi scudisci, i “guardiani del carro” (oggi designati con l’espressione eufemistica di “angeli del carro); ed è un fatto che, nei giorni successivi, i racconti, le immagini, i commenti ignorano ogni aspetto sacro, concentrati tutti sui fuochi pirotecnici, sulle luminarie, ma soprattutto sull’assalto al carro, sul bottino recuperato, sull’ardire di taluni, sugli incidenti cui l’evento, quasi sempre, ha dato luogo.

La festa sacra, extrapolata dall’humus religioso dell’antico mondo ufficialmente cristiano, si trasforma in una monumentale messa in scena, un fatto teatrale, la sequenza finale di un film western, dove a tutti è dato di partecipare all’assalto finale alla carovana. E non stiamo a dire che si tratta di devozione! Recuperare la matrice religiosa alla festa è cammino lungo e affatto difficile.  Vale per Matera quanto per la gran parte ormai delle feste religiose, almeno da quando sono inserite nei programmi turistici, come momento di svago e profitto economico. La questione meriterebbe una riflessione e meditazione lunga e specifica.

In conclusione mi sia consentito richiamare quanto san Giovanni Paolo II disse all’episcopato latino-americano: «La radicata religiosità popolare dei vostri fedeli, con i suoi straordinari valori di fede e di pietà, di sacrificio e di solidarietà, convenientemente evangelizzata e gioiosamente celebrata, orientata ai misteri di Cristo e della Vergine Maria, può essere, per le sue radici eminentemente cattoliche, un antidoto contro le sette e una garanzia di fedeltà al messaggio della salvezza».[5]. Sarebbe da aggiungere antidoto anche contro il neopaganesimo. Forse è tempo che la nostra Chiesa locale prende in seria considerazione lo studio e la ricerca di forme adeguate – vive e dinamiche – per una efficace “pastorale al popolo”, perché la Chiesa non può rinunciare al suo carattere popolare e universale.

Don Donato Giordano (O.S.B) né Priore e Rettore del Monastero Santuario S. Maria di Picciano. Docente presso la Facoltà Teologica Pugliese di Patrologia e Tradizioni bizantine dell’Italia Meridionale (Monachesimo e Iconografia). Docente di Ecumenismo presso l’ISSR di Matera. Direttore dell’Ufficio Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo Interreligioso.

[1]Per la storia dell’istituzione della festa della Visitazione e la sua relazione con Matera, vedi AA. VV., Storia, Ecumenismo, Arte in Lucania a 600 anni dall’istituzione della Festa della Visitazione, Convegno Internazionale, Matera 10-12 settembre 1990, Matera 1991; Beata te che hai creduto, Celebrazioni conclusive del VI Centenario dell’istituzione della festa della Visitazione, Matera 2 luglio 1990, Matera 1992.

[2]Ancora oggi resta irrisolta (a parte le più disparate ipotesi di antichi e novelli erudi locali) la questione storica del rapporto tra l’affresco dell’Odegitria della Cattedrale e il titolo della Bruna, di origine napoletana, e la sua trasposizione/identificazione nella statua processionale.

[3]Cfr. G. Caserta, Simbologia di un Carro – Storia di una festa, in F. Carella-G. Caserta-F.Villani, La Madonna della Bruna, Villani ed., Potenza 2023, pp. 109-123.

[4]G. Caserta, I pezzi del Carro all’asta per l’Ottava, “Il Quotidiano”, 14 luglio 2007, p. 34.

[5]GIOVANNI PAOLO II, Discorso all’apertura dei lavori della quarta Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano, “Insegnamenti di Giovanni Paolo II” XV, 2 (1992), p. 323.