Nel cinema, con la tecnologia digitale, ormai è possibile mostrare di tutto. Dinosauri, Puffi, armate di migliaia di orchi o mummie che marciano, draghi volanti, super eroi di ogni tipo con pittoreschi nemici annessi e connessi ma anche l’antica Roma, piuttosto che l’Inghilterra elisabettiana di Shakespeare, con tanto di inquadrature aeree. Persino far recitare gli attori defunti.
Questi film sono girati in enormi stanze verdi in cui gli attori interagiscono con il nulla. I prodigiosi effetti speciali saranno successivamente spalmati su queste pareti pallide. In questo oceano di magia tecnologica, potete immaginare quanto possa essere elementare creare l’effetto del respiro che si condensa nell’aria quando il personaggio di un film si trovi ad agire in un ambiente molto freddo. Un gioco da ragazzi, come quello di far schizzare il sangue da una ferita. Anche il sangue oggi viene coreografato con il computer. Il plasma si emancipa da rudimentali pompette o sacchetti esplosivi telecomandati.
Ebbene, c’è stato un momento, molto prima dell’avvento degli effetti digitali, in cui, riprodurre il volgarmente detto “fumo” dalla bocca, ha costituito una sfida tecnica impressionante e molto dispendiosa. Soprattutto se il regista era un perfezionista, quasi paranoico, come William Friedkin.
Sto parlando del film “L’esorcista” del 1973. Su questo capolavoro horror (e non solo) si possono fare infinite analisi e considerazioni ma atteniamoci al “vapore”. Contrariamente all’Inferno, dove, immagino, per via delle fiamme, si scoppi di caldo, il regista americano desiderava che nell’Inferno sulla terra, vale a dire nella cameretta di Reagan, la bambina indemoniata, regnasse una condizione termica polare.
Un’ idea di regia che ovviamente andava rappresentata. Da qui la necessità di fare vedere il vapore che fuoriesce dalla bocca dei personaggi coinvolti nella scena. Vale a dire, l’eroico Padre Karras e l’Esorcista. La terza, l’indiavolata, invece si limitava a sputare bile verde, ovviamente con la pompetta.
Un effetto tanto banale un produttore oggi non lo metterebbe neanche in budget. Quello dell’Esorcista, invece, ha dovuto assecondare il dispendioso e laborioso stratagemma di Friedkin. La stanza della sventurata bambina, venne quindi ricostruita, come fosse una cella frigorifera. Con un impianto di raffreddamento, prima di ogni ciak, la temperatura della location veniva abbassata sino a valori molto bassi. Gli attori, quando nella camera si giungeva a diversi gradi sotto lo zero, iniziavano l’azione. Come si evince, guardando la scena del film, ogni loro respiro, preghiera o esortazione al Diavolo ad abbandonare il corpo della bambina, è accompagnato da un evidente folata di vapore.
La stanza, però, si riscaldava velocemente. Manteneva la temperatura necessaria per un’oretta. Quindi, dopo 60 minuti, tutti fuori dal set. Bisognava riattivare l’impianto di raffreddamento. Insomma, per girare una scena di circa 15 minuti ci è voluta un’eternità. L’effetto del “fumo” dalla bocca però, potete verificarlo, è impeccabile.
Max Von Sidow (attore feticcio di Bergman ma anche indimenticabile esorcista) ricordava, in alcune interviste, l’astrusità e la difficoltà di quell’esperienza.
L’Esorcista è il film horror-meccanico per eccellenza. Per raggiungere l’impatto visivo che il film, oggettivamente possiede, Friedkin trasformò il suo set in una sorta di laboratorio per brevetti demoniaci.
Soltanto in una situazione, non si riuscì a risolvere il problema, nonostante il consumo di ingegno ed energie. Mi riferisco alla famigerata “scena delle scale”, meglio conosciuta come “Spiderwalk”. La bambina posseduta scende le scale di casa a quattro zampe, come un ragno appunto, ma completamente ribaltata su se stessa. La sequenza fu realizzata, imbrigliando una controfigura ad una serie di cavi, che purtroppo, quando il girato fu sviluppato, si rivelarono meno invisibili di quanto si sperasse. Per rendere disponibile la scena nel film si è dovuto aspettare trent’anni, cioè fino a quando cancellare in digitale i cavi dalla pellicola è diventata una operazione che può fare anche un bambino di 12 anni.
Questa titanica impresa ci racconta di un cinema che non esiste più. Salvo rari casi (pensiamo al Titanic di Cameron o a Fury road di George Miller che però proprio quest’anno con Furiosa ha “ceduto” al digitale) nessun cineasta cerca la “tangibilità” dell’effetto speciale o della location. Ci si affida all’onnipotenza ipertrofica dell’effetto digitale che tutto può, e forse, proprio per questo ha smesso di sorprenderci e ci si abitua sempre più alla meraviglia.
Lungi dal voler sembrare un nostalgico dell’era meccanica, sono convinto che anche una semplice bottiglia, che si schianti in scena, se vera, è differente da una in digitale. In qualche modo lo spettatore si accorge che quei cocci sono autentici. Lo stesso dicasi per un banalissimo sbuffo di vapore.
Antonio Andrisani, regista, attore, sceneggiatore, scrittore